martedì 5 ottobre 2010

Ma noi tutti ‘sti asciugamani non li abbiamo mica: ovvero “perché noi saremo buoni, ma gli americani devono sempre essere meglio”

L’Europa e l’America. La FIBA e la NBA. Due mondi (universi, galassie) molto più lontani di quanto possa sembrare e che – almeno per il sottoscritto – meno si incontrano e meglio è.

L’amichevole tra i New York Knicks e l’Armani Jeans Milano era comunque un’occasione di quelle in cui si può passare sopra alle differenze di cui sopra, per godersi una trasferta dal sapore particolare.

Ricevuto l’accredito stampa, pianifico un week end di stalking puro ai danni della squadra blu-arancio, e pazienza se quello che a giugno sembrava essere l’attrazione numero uno ha deciso di smarcarsi preferendo allenarsi in una base militare con Wade e Bosh piuttosto che sotto la “madunina” nostra.

Premetto che della partita di domenica sera non vi dirò niente – ché tanto quello che volevate sapere lo avete già saputo dai giornali/TV/siti/blog – perché quello che voglio provare a raccontarvi è il mio sabato, o meglio il nostro sabato. Quello di un gruppo di esseri umani, molto diversi tra loro, con in comune la passionaccia per questo gioco…

Arrivo al “Westin Palace”, in Piazza della Repubblica, prima delle 10 per ritirare il pass. L’albergo è quello dove alloggia la squadra, ma sarebbe meglio dire che è quello dove alloggia l’NBA. Lo spiegamento di forze è imbarazzante e la sala stampa al primo piano di improvvisato ha solo il nome. Almeno una trentina di “media-people” della Lega sono pronti ad accoglierti e guidarti passo-passo.

Ecco, se vi è mai capitato di “coprire” un qualche evento (e neanche necessariamente piccolo) in Italia, probabilmente vi sarà rimasto in bocca il retrogusto amarognolo di un’organizzazione un po’ “pane e salame”. Invece qui si sale di livello. E di molto anche.

Comunque, pass al collo, mi dirigo al mitico “Palalido” ché alle 11 è previsto l’allenamento dei Knicks.

In metro becco coach Dan Peterson che mi racconta come – ai bei tempi – facesse quello stesso tragitto con la squadra per andare alle partite, Mike D’Antoni compreso. Quel D’Antoni che allora faceva il play di Milano e che oggi fa il coach di New York. Bei tempi appunto.

Arriviamo al palazzetto insieme al pullman (pullman…sarebbe più esatto dire shuttle) dei Knickerbockers, dal quale scendono players e friendsandfamily. I primi imboccano le scale per gli spogliatoi, i secondi (la maggior parte almeno) prendono un tot di taxi che un po’ di shopping meneghino fa sempre bene…

Antonello Riva-Davide Pessina-tiziochenonconosco-tiziachenonconosco-Sale Djordjevic-Flavio Tranquillo-IO-Alessandro Mamoli-dirigente Armani Jeans Milano. Questo delirio è l’ordine dei posti nella fila, assolutamente a bordo campo, dove sono seduto. Non provate a giocare a “indovina l’intruso” che è fin troppo facile.

Seguono ore 4 (più o meno) di chiacchiere, commenti, risate e goodtimes come te le sogni la notte. Tra i migliori highlights rimane l’uscita del Pess che, nel momento in cui Amar’e si è levato la maglia, si è alzato in piedi, si è tolto il giubbotto e ha urlato “vediamo chi intimidisce di più adesso!”

La sensazione – da neofita - è quella di essere capitato in mezzo a un gruppo che si conosce/frequenta da almeno trent’anni, chi in campo e chi a bordo campo, e ha condiviso la vita (almeno i momenti più salienti) crescendo insieme.

Si parla (o meglio parlavano) di mogli, di figli, del fratello di Djordjevic, della cena della sera prima al “Tronchetto” in onore di Mike D’Antoni, con tanto di bisca clandestina come ai vecchi tempi, di una delle voci – e delle penne – più amate del nostro basket colpevolmente assente all’evento, e di tanto altro…

E allora tra un Gallo che porta a spasso almeno una decina di chili in meno rispetto all’ultima volta che l’ho visto dal vivo (un anno esatto) e che sembra veramente “one of the guys” e a un Turiaf che si allena 5 minuti a sta fermo mezz’ora ma che quando fa sul serio capisci perché gli paghino lo stipendio…

Tra tre assistenti allenatori SEMPRE a correre in mezzo al campo che sembrano il sergente di “Full Metal Jacket” e un D’Antoni stravolto dai ricordi e dall’emozione…

Tra un Pess che dovrebbe avere un suo reality show e uno Stat che mi ha fatto perdere venti anni di vita arrivandomi alle spalle urlando come un pazzo “The President!!!” (stava “solo” chiamando Danilo, che in Italia per i Knicks è il presidente) e – soprattutto - un magazziniere dell’Olimpia che dice a D’Antoni – in milanese strettissimo – “ai nostri tempi avevamo tre asciugamani per tutta la squadra, questi (gli americani) ne hanno dieci a testa…che roba…”…ho passato una giornata in compagnia di gente “del basket” e “di basket” irripetibile…molto meglio di uno show di marketing puro travestito da partita (combattuta nel risultato solo per i giornali italiani) di una domenica d’inizio ottobre…

Un paio di note per chiudere:

Chiedo scusa a Stoudemire per tutte le volte che ho detto che era solo un “fisico bestiale” (cosa difficilmente negabile tra l’altro) e non un vero giocatore: l’ho visto con i miei occhi fare 8/10 da tre in riscaldamento e – durante la partitella – il commento meno entusiasta circa le doti tecniche di Stat è il tranquilliano “che tiri così con quel fisico è irreale, mai vista una roba simile”…

Quando bighellonavo in campo a fine allenamento, fotografando e parlottando con i giocatori (che erano molto in vena) noto un signore molto (moltissimo?!) in là con gli anni, seduto su un seggiolone a bordo campo, cui tutti facevano la reverenza e io pensavo “ma chi cazzo è ‘sto vecchio?!”. Era Donnie Walsh. Che cazzone. Io. Non ne avevo idea, però vi avevo avvisato che in quella fila di seggiolini a bordo campo c’era un intruso…

sabato 18 settembre 2010

Sheena is a Punk Rocker, ma anche noi non scherziamo...

Io Don Letts mica lo conoscevo.

E non è che adesso lo conosca personalmente, ma l’ho frequentato al MilanoFilmFestival per tre giorni e – soprattutto – ho goduto per due notti grazie ai suoi lavori.

No, non sto parlando di porno (cui va tutto il mio rispetto) ma di un paio di documentari che invece del Parco Sempione meriterebbero le aule di tutti i licei del mondo.

Don sembra un giamaicano (e lo è di origine) che suona raggae (ma non solo quello in realtà), però è un inglese che fa tante cose: il dee-jay e il documentarista sono due tra queste.

“Punk: Attitude” e “Strummerville” sono due manifesti scritti, montati, diretti e partoriti dal Don nostro sulla libertà più grande che c’è: quella di poter dire vaffanculo.

Un vaffanculo stonato e scordato come le voci e gli strumenti dei protagonisti di quello che viene sempre ridotto a genere musicale, ma che in realtà è “solo” un modo di vivere. E magari anche il migliore che potete trovare in giro…

Il punk, allora, è necessario, ma non è necessario che vi piaccia. E’ necessario che esista perché col cazzo che vogliamo vedere tutti gli stessi film, leggere gli stessi libri, vestirci nello stesso modo e mangiare le stesse cose…siamo diversi ed è sacrosanto che nessuno ci rompa le palle.

“Fuck You!” è la parola più pronunciata in “Punk: Attitude” da quelli che trenta/quarant’anni fa hanno deciso che non serviva saper suonare uno strumento o essere Sinatra per mettere su un gruppo e dire quello che doveva essere detto.

La musica, dice Henry (Black Flag, idolo) Rollins nel primo documentario, è ciclica: ogni vent’anni di merda si sente il bisogno di cambiamento e, così, viene fuori la nuova/vecchia/prossima rivoluzione musical-culturale. E’ successo prima del punk, ed è successo a vent’anni dalla morte del punk con il grunge.

Mentre sbavavo guardando i Ramones e i Television sul maxi-schermo, pensavo che sarebbe proprio ora del prossimo ciclo, ché mi sarei anche rotto i coglioni di quello che si sente in giro.

Ah, per quelli che stanno pensando di farmi notare che non s’inizia mai un capoverso con “io” – e l’ho fatto all’inizio di questo post – ho una sola parola: vaffanculo (ovviamente)

martedì 31 agosto 2010

Beh, io allora vado eh...

Dove: Londra

Quando: il 1 ottobre

Perché: Esce – o meglio ri-esce – al cinema “Ritorno al futuro”…il film della mia vita, chè se non vi piace allora basta così…ma solo nei cinema inglesi (ma perché?! Cazzo c’entrano gli inglesi con Marty McFly?!)

Sono 25 anni e vanno celebrati, ma in realtà, ogni scusa è buona…

venerdì 9 luglio 2010

La Cina è vicina e il Re è morto...


Ieri sera alle 21 in punto l’America si è fermata – quasi come se ci fosse un Super Bowl fuori stagione – perché un ragazzo di (ancora) 25 anni doveva dichiarare con quale canotta avrebbe sudato sui parquet della NBA per i prossimi 5 anni.

Se il ragazzo in questione è soprannominato “Il Prescelto” e l’evento, in diretta su ESPN, è intitolato “The Decision 2010”, allora converrete che l’attesa era abbastanza giustificata.

Gli americani dicono che “tutto è più grande in Texas”, per quelli come noi - poveri esiliati ai confini dell’impero - “tutto è più grande in America”, quindi si aspettano le 3 del mattino per poter seguire live in streaming la trasmissione.

LeBron James si è seduto in una palestra a trenta Km da New York e – imbarazzato, impacciato e fuori ruolo come mai prima – ha detto Miami, raggiungendo così in quel di South Beach gli amichetti Dwyane Wade e Chris Bosh.

Fine della storia. E fine anche di un sogno.

LBJ avrebbe potuto scegliere Chicago per puntare subito al titolo, avrebbe potuto rimanere a Cleveland – a casa sua, dopo aver deliziato gli indigeni per sette anni – ma, soprattutto, avrebbe potuto (dovuto?) andare a New York…

Da almeno tre anni la franchigia più disastrata e ridicolizzata dello sport professionistico americano, preparava questo momento - aveva liberato spazio contrattuale, e spazio nello spogliatoio – ma ancora una volta è stata beffata.

Perché più di Gotham poté Pechino.

Durante quella gita fuori porta chiamata Olimpiadi, infatti, i tre ragazzotti di cui sopra avevano fatto un patto abbastanza chiaro: appena scadono i nostri contratti andiamo a giocare tutti insieme, da bravi amichetti…

E quello che sembrava fanta-basket della più bassa lega è diventato in una sola settimana una realtà.

La sconfitta, però, è totale.

Un altro semi-dio è tornato improvvisamente ad essere solo un superuomo, o meglio, un ragazzo stanco di continuare a correre più veloce delle aspettative che il mondo gli rovescia addosso.

Adesso vincerà quel maledetto titolo – magari non subito e magari più di uno – e non verrà ricordato come un altro di quei campioni che non hanno mai conquistato un anello.

Però lo Sport – con la S maiuscola – ci perde: poteva diventare una leggenda, ha scelto di essere un uomo…

domenica 27 giugno 2010

COME ERAVAMO: FINDING NEVERLAND...


Estate 1991.

“Dani mettilo sù…poi me lo copi ok?!”

“Sì, te l’ho detto…te lo copio! Che palle che sei…”

In una cameretta di una piccolissima città italiana due (ancora, ma si sentivano già grandi) bambini sono appena tornati dopo la tappa fondamentale al negozio di dischi.

Il bottino? Un CD. Il titolo è “Dangerous” e l’artista Michael Jackson.


Estate 2009.

Sono passati quasi vent’anni.

Vent’anni da quel primo ascolto nella cameretta del mio amico di quel disco e vent’anni dalla mia prima volta a New York.

Sono ancora a New York e internet mi dice che Jacko non c’è più.

Passo più di qualche mezz’ora nella convinzione che sia una strategia di marketing oggettivamente un po’ troppo estrema.

Nada. E’ tutto vero. La mia infanzia – durata forse troppo, come tutte le cose nella mia vita - muore quel giorno.

Non posso considerarmi un fan di MJ. Ma gli ero sicuramente affezionato, perché è stato uno dei simboli di un periodo irripetibile – sotto tanti punti di vista – che non tornerà mai.

Non ho assistito ai Beatles o a Elvis. Non c’ero quando i Led Zeppelin o i Pink Floyd erano al loro apice. Non ho neanche visto i Genesis. Ma lui sì, cazzo!

Mi ricordo del guanto coi brillantini, dei calzini bianchi e di “Neverland”.

Mi ricordo della fascia al braccio e dei video milionari diretti dai migliori registi del cinema di quel periodo.

Mi ricordo “Thriller” di John Landis e il moonwalk di Billie Jean. I Ray-Ban specchiati e il ricciolo che cadeva sulla fronte.

Mi ricordo “We are the World” e mio padre che inveiva contro il “suo” Lionel Richie che si faceva coinvolgere in quelle cazzate…

Mi ricordo che avevo assillato mia mamma per mesi perché non riuscivo a capire il motivo per cui non potessi avere anch’io una Bubbles.

Mi ricordo tutto questo e non mi va di affrontare il resto, chè mi voglio ricordare solo l’artista, anzi il performer.

Il più grande che sia mai esistito.

E' passato un anno...

martedì 22 giugno 2010

STRAIGHT INTO COMPTON:

L’8 agosto non è una data come le altre.

Per una serie di motivi.

Ad esempio perché l’8 agosto 1988 è nato Danilo Gallinari, quite possibly quello che diventerà il più grande giocatore di pallacanestro che l’Italia abbia mai avuto.

Quello stesso giorno – l’8/8/’88 – a qualche migliaio di chilometri di distanza nasceva anche il gangsta rap della West Coast.


Siamo nell’area sud di Los Angeles, dove un gruppo (o una crew come sarebbe più corretto dire) che si faceva chiamare “N.W.A.” - i Niggaz Wit Attitudes, capitanato da colui che contende a Russell Simmons e Rick Rubin lo scettro di miglior produttore hip-hop mai esistito, Dr. Dre, più altri quattro thugs (Ice Cube e Eazy-E su tutti) – fece uscire proprio quel giorno il suo primo e più famoso singolo: “Straight Outta Compton”.

Il quartiere più violento e cattivo (forse ai punti con Inglewood) della città degli angeli era improvvisamente famoso in tutta l’Unione e l’Hip-Hop di denuncia sociale non era più una roba esclusiva di Harlem o del Bronx.

Era ufficiale: se eri coloured stavi di merda anche a Los Angeles. E tanti saluti alla Sunny California.

Da qui a Rodney King mancano solo tre anni: le immagini di George Holliday finiranno in tutti i notiziari del mondo, trasformando la L.A. Area in una bolgia.

Spike Lee utilizzerà quel footage per aprire il “suo” “Malcolm X”, un anno dopo.

In quel momento di massima violenza gli “N.W.A.” avranno già iniziato a perdere i pezzi.

Questa, però, è un’altra storia.


- “Ron, What About Tonight?”

- “We Just Had a Nice Dinner…”

- “ Are You Gonna Go to Disneyland?”

- “Hell No, I’d Rather Go to Compton!”


Compton.

Ancora.

Questa volta nel dialogo – singolare anzichenò – tra un paparazzo e Ron Artest, che ha appena vinto il suo primo anello con i Lakers.

Già, perché il 17 giugno 2010 i Los Angeles Lakers hanno conquistato il loro 16esimo titolo NBA, il secondo consecutivo, dopo una serie estenuante contro i rivali per eccellenza, quei Boston Celtics adesso distanti un solo banner.

Serie finita alla settima partita, ma se ne avessero giocate settanta noi non ci saremmo di certo lamentati. Non perché sia stata una serie particolarmente bella tecnicamente, ma perché è stata LA SERIE.

Los Angeles contro Boston vuol dire Magic Johnson contro Larry Bird, Hollywood contro gli irlandesi, i fighetti abbronzati contro la classe operaia, gli attori frivoli contro i politicamente impegnati, il bene contro il male. E scegliete voi da che parte stare…

Dopo una serie non esaltante in quella gara 7 è arrivato il turno di Artest Ron.

Nato al di fuori di queste geografie, a New York, è arrivato ai Lakers un anno fa solo per vincere l’anello.

Ha firmato con la franchigia hollywoodiana a poche settimane di distanza da una quasi rissa con il blackmamba, durante la sua militanza in maglia Rockets. Non proprio i migliori presupposti per un’unione idilliaca.

E invece, è andato tutto bene. Anche troppo.

A tratti – soprattutto in regular season – sembrava che Ron fosse fin troppo calmo, quasi irriconoscibile.

Poi quando veramente contava s’è fatto vivo.

“Porta linfa vitale al nostro gioco e al nostro pubblico. E’ chiaramente l’MVP di questa sera.”, music and lyrics by Phil Jackson - il Maestro Zen in persona - che di solito non è troppo in confidenza con i complimenti ai giocatori.

Soprattutto con quelli che allena.

Odom è stato qualcosa di più che altalenante, arrivando a toccare quasi il fastidioso. Gasol se non avessimo avuto il fattore campo a favore, probabilmente ci sarebbe costato la serie. Bynum è un lusso che nessuna squadra si può permettere nel lungo termine, chè non si può passare la stagione ad aspettare un – se pur buonissimo – giocatore.

IlGeniodelMale si è confermato il miglior giocatore del mondo. Punto.

Ma “Ultimate Warrior” ha dato il quid in più proprio quando serviva, anche in attacco.

Saranno i capelli, sarà la capacità disarmante di entrare nella mente dell’avversario su cui difende, ma rimane il fatto che ricorda – a tratti – il miglior Dennis Rodman a memoria di chi scrive, quello del Three Peat dei Bulls.

Dato che le coincidenze non esistono, come Rodman ai Bulls (91) e agli stessi Lakers (73) – nella sua vita cestistica più colpevolmente breve – anche Artest ha scelto una maglia i cui numeri sommati dessero un 10 come risultato, il 37.

Un caso? Col cavolo…riprendete in mano il bignami sul binomio musica e basket: 37 sono le settimane consecutive in cui “Thriller” è rimasto al primo posto nella classifica BillBoard.

Un record assoluto per un genio sbagliato come pochi che rispondeva (ahinoi) al nome di Michael Jackson…

“Genio” e “sbagliato” a volte s’incontrano e quello che viene fuori è il talento. Anche quello di essere diversi dagli altri.

Bravi tutti.

venerdì 18 giugno 2010

SWEET SIXTEEN: IN RON WE TRUST



NBA Finals 2010: Los Angeles Lakers campioni, Kobe Bryant MVP.

Tutto come un anno fa? Manco per sogno…

Il black mamba può alzare il trofeo e gioire chè la scimmia ormai dalla spalla è scesa e non ci tornerà più, ma non mi dite che questi sono i Lakers di dodici mesi fa…

Perché tra giganti-bambini che farebbero prima ad andare a Lourdes e sperare in una benedizione miracolosa, catalani che quando vedono la bestiameglioconosciutacomeKevinGarnett si trasformano in Ga-soft (ovvero la versione kryptonitica di un grande giocatore) e newyorchesi talentuosi sì, ma che se ti sposi una delle sorelle Kardashian (tra l’altro con l’aggravante di essere quella che con i capelli a zero sembra Fisher, cazzo almeno scegli la più figa…no niente…) allora non è che puoi aspettarti più di tanto…

Arriva uno che è più uguale degli altri, un altro newyorkese, ma di quelli che “puoitirarefuoriunuomodalghettomanonpuoitirareilghettofuoridaunuomo” e allora tutto cambia e per voi sono cazzi…

Prima dichiarazione appena firmato con i Lakers un anno fa: “Non fatemi neanche pensare a quanti soldi ho dovuto rinunciare per essere qui e vincere il titolo” (n.d.r. non ha detto “provare a”, ha detto “vincere”, cojones)

Prima dichiarazione dopo la sirena di gara-7: “Ringrazio il mio psichiatra” (qui è fortemente gradita la standing ovation).

Non sono i venti punti di stanotte – 20 punti con tutta la difesa che ha messo sul parquet…fantascienza – ma è quel tiro da tre…brutto nello stile, ma perfetto in tutto il resto, immagine di uno che non ha mai cercato essere qualcun altro, plasmando la sua vita sulla versione che gli altri avrebbero voluto vedere (sorry, KB, truth hurts), ma che è sempre e solo stato se stesso,”‘Cause if I Gotta Die, Rather on My Side”…

Quindi, nel giorno della consacrazione di Bryant – come se non fosse stato già abbastanza chiaro a tutti – a miglior giocatore di questo pianeta, noi omaggiamo Ron-Ron, “TruWarrior” come lo conoscono al Rucker Park, oppure “fatty-boy” come un giorno lo chiamò un poveretto prima di ricevere un treno - mascherato da pugno - dritto in faccia.

Grazie Ron, di tutto. E di cuore. Magari grande come il tuo.

martedì 1 giugno 2010

Eastwood, Clint Eastwood...


San Francisco è un posto strano.

E’ la città di Alcatraz e quella di Castro insieme.

Del primo sapete tutto, del secondo dovreste, ma se non è così è suffciente sapere che se cercate il primo posto negli Stati Uniti in cui due esseri umani dello stesso sesso hanno camminato mano nella mano alla luce del sole, allora look no further.

Per questo, ormai 80 anni fa, Clinton Eastwood - meglio conosciuto solo come “Clint”, più asciutto e diretto come tutto ciò che lo riguarda - non poteva nascere altrove.

Solo la città degli opposti e delle contraddizioni poteva dare i natali ad uno che ha passato metà della propria carriera a combattere contro i (pre)giudizi di quelli “bravi” che ne stroncavano le capacità attoriali e l’altra metà a riscrivere la storia del cinema, diventando il più grande autore americano contemporaneo.

Sembrava destinato a sbarcare il lunario come corpaccione televisivo in “Rawhide”, ma poi un visionario e megalomane racconta-storie romano e romanesco colse in lui qualcosa che gli altri non vedevano e lo portò in Italia. Correva l’anno di grazia 1964 e “Per un pugno di dollari” avrebbe aperto una stagione incredibile del cinema italiano e mondiale. Clint nostro, intanto, imparava...

Nei successivi due anni Sergio Leone e “l’uomo senza nome” si dedicarono a completare insieme la trilogia del dollaro – con “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo” – cementando una delle unioni più singolari della storia del cinema: tanto era esagerato, larger than life ed opulento Leone, tanto era asciutto, essenziale e senza fronzoli Eastwood.

Dopo una serie di ruoli “da duro” – un nome su tutti, quello di "Dirty" Harry Callahan, in italiano “Callaghan” – dove sembrava non poter abbandonare mai l’oggetto di scena più caro (la pistola) alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, “lostranierodagliocchidighiaccio” stupisce il mondo con la regia di “Bird”, biopic sul nero che una mattina si è svegliato e ha deciso che il jazz non era male, ma si poteva fare di più: Charlie “Bird” Parker.

Se il cinema era stupito che l’ex uomo pistolero con due espressioni (una con il cappello e una senza) potesse avere quel tipo di sensibilità artistica, beh...avrebbe fatto meglio a mettersi comodo che non aveva ancora visto niente...

La data astrale è 1992, il titolo è “Gli Spietati” ed il genere completamente rivoluzionato e reinventato è quello – tanto amato – del western. Primo Oscar alla regia per Clint, e tante care cose a quelli che ancora si sbattono ad etichettare cose e persone...

L’anno successivo, cambia radicalmente registro portando sullo schermo “Un mondo perfetto”, dove la relazione tra vittima e carnefice tocca livelli altissimi (se lo avete visto e non vi siete commossi non vi voglio neanche conoscere)...

Seguono i capolavori assoluti come “Mystic River”, “Million Dollar Baby” e “Lettere da Iwo Jima”, preceduti da alti – come “Potere assoluto” – e bassi – “I ponti di Madison County”, ma perchè Clint?! –ma ormai Eastwood da maschera perfetta per il “duro” born in the U.S.A. è diventato icona senza tempo e senza spazio. Come sancisce “Gran Torino”, semplicemente IL CAPOLAVORO.

“Avete mai fatto caso che ogni tanto s'incrocia qualcuno che non va fatto incazzare? Quello sono io...”

Tranquillo Clint, noi volevamo solo farti gli auguri...

domenica 30 maggio 2010

Keep on riding, Hop...


40 anni prima di Kathryna, gli Stati Uniti del secondo dopo guerra – quelli del politically correct, degli occhiali da vista con le montature spesse, del polpettone, delle torte di mele e le station wagon con le fiancate in legno – furono sconvolti da qualcosa che aveva l’epicentro sempre a New Orleans.

Non era una calamità naturale, bensì una calamità culturale. Un giovane attore aveva deciso che esordire come regista con un film-tributo a “The Big Sleep” ed il suo carnevale era la cosa giusta. Non interrompere l’uso degli stupefacenti durante la lavorazione anche.

Il film si sarebbe intitolato “Easy Rider”, ed il neo-regista si chiamava Dennis Hopper. Con quel viaggio psichedelico ed allucinato, l’America perdeva la verginità e diventava grande, dovendo iniziare a fare i conti con i diversi, gli outcasts, gli underdogs...chiamateli come volete...il concetto è sempre quello: esisteva qualcuno nel Paese – più d’uno per la verità – che nelle torte di cui sopra, invece che le mele metteva i funghi...e non del tipo che si trova nei boschi.

Quel film divenne il primo vero cult generazionale, e, considerando che la data diceva 1969, la generazione era quella giusta. Le Harley Davidson, Peter Fonda e il Vietnam non sarebbero stati più gli stessi. Gli hippy – o se preferite gli alternativi - erano ufficialmente tra noi. Per restare.

Il film si fa ricordare anche per un altro paio di cosette: il premio come miglior opera prima alla 22esima edizione del Festival di Cannes, e l’essere forse l’unica pellicola in cui Jack Nicholson non arriva primo nella speciale classifica “Con quale membro del cast non fareste mai uscire vostra figlia?”, chè anche lì “Hop” arrivava primo. Con distacco anche.

Negli anni Dennis Hopper si è lasciato andare a qualche contraddizione di troppo – dal magnifico fotografo pazzo/scudiero di Kurtz in “Apocalypse Now” a “Water World” (!?), da “Sfida all’OK Corrall” a “Super Mario Bros.” – ma se hai esordito a neanche 20 anni come attore in “Gioventù bruciata”, allora è scritto nelle stelle...

Con James Dean avrebbe recitato anche ne “Il Gigante”, e la morte dell’amico fraterno lo avrebbe segnato per sempre...

Adesso lo avrà raggiunto sul set che dura per sempre, insieme al terzo componente di quel trio, il colonnello Kurtz in persona, Marlon Brando. Discutendo di arte e libertà...che poi sono la stessa cosa...

R.I.P.

domenica 23 maggio 2010

BRAVI, BENE, MA NIENTE BIS


Quello lì non è uno che ripete, e non lo dice solo perché qualcuno – nello specifico un assai più trascurabile Paganini – lo ha già detto prima di lui e Josè tipo da arrivare secondo non lo è mai stato.

E’ l’Inter ad essere pazza, ma stavolta sul serio e non di gioia, perché nel momento del trionfo inattaccabile, quello ottenuto senza sconti e contro tutti, riesce a rovinarsi il futuro prossimo.

Perché bisogna essere veramente matti a non trattenere a forza il vate di Setubal, al secolo Josè Mourinho, un essere mezzo uomo e tutto mago che ha trasformato una squadra barzelletta – citofonare Severgnini – nella regina d’Europa…

Uno che ha dato via Ibra-cadabra, che tanto di maghi ne basta uno solo, per prendere un difensore scartato dal Barca stellare e soprattutto Diego Milito: un già trentenne con la faccia da sceneggiata napoletana – o da poliziottesco anni ’70 – senza tatuaggi, senza orecchini e senza diritto di cittadinanza nel regno dei Cristiano Ronaldo e dei David Beckham.

Milito no, non lo vedremo mai in una campagna di Armani, ma state tranquilli che le chance di (continuare) a vederlo in mezzo all’attacco telecomandato dal profeta portoghese sono sempre più alte.

Perché Josè nostro – anche se nostro ancora per poco – pirla non è e lo ha detto subito, tanto per non creare equivoci, e quindi figurati se uno con la faccia da Don Bastiano del “Marchese del Grillo” se lo lascia scappare…

Josè ha fatto ieri sera l’ultimo dispetto alla Roma, rubandole uno “slogan” dei latini tanto caro al tifo capitolino…lui sì che ormai può dire “Veni, Vidi, Vici” alla faccia dei Ranieri di tutto il mondo, quelli bravi sì, ma senza quel guizzo, o quel “quid” – sempre per indispettire i latini – che li rende speciali…

Josè speciale lo è sempre stato e lo ha sempre saputo, questo (o quello) è il suo mondo e noi siamo solo spettatori di passaggio…quindi mettetevi comodi che the show must go on o - come sarebbe più corretto – el espèctaculo tiene que continuar, magari rimanendo in quel Santiago Bernabeu ad insegnare ai blancos milionari come si vince, anche senza i Ronaldi e i Kakà, ma con i Maicon e i Militi…anche a Madrid hanno capito che aria tira, Josè è venuto, ha visto ed ha vinto, come sempre…

Noi, dopo due anni, torniamo sulla terra e sarà meglio riabituarsi in fretta ai Ranieri…che messi come stiamo messi, magari ce li meritiamo pure…