In questo blog abbiamo sempre cercato di rendere onore al conflitto d’interessi.
Nel senso che nessuno dei redattori si è (quasi) mai occupato della squadra per cui fa il tifo, almeno durante calde serie di play-off.
Per questo, il mio socio, these days non ha scritto niente che avesse un focus sui Miami Heat, preferendo dedicare del tempo all’idolo Kidd.
Quindi tocca a me? Diciamo che potrebbe, ma soprattutto che vorrei…
Nel 1988 Brett Michaels – prima di diventare una patetica reality star di VH1 che tenta di accoppiarsi con varie famewhores of redneck origins - cantava “Nothin’ But a Good Time” insieme ai suoi Poison e a quintali di lacca per capelli.
Ecco, ogni volta che sento quel pezzo – capita, a volte, scusate – mi viene in mente che alla fine - nella vita - anche la leggerezza deve aver il proprio spazio, il proprio posto, il proprio diritto ad esistere. Perché come ho già detto più volte altrove “Sometimes You Gotta Say: ‘What the Fuck!’”.
In una mia ipotetica mappa mentale che prenda vita dal concetto di leggerezza, uno dei primi rami collegherebbe quel concetto alla faccia di LeBron James, con tutto il rispetto per Tony Buzan e il cognitivismo.
Perché LBJ? Perché, secondo me, lui è uno dei quelli lì. No, non uno dei Poison (anche perché non potrebbe usare molta lacca, causa assenza di materia prima), ma uno di quelli che ha scelto di divertirsi. Soprattutto.
Lo avete mai visto realmente arrabbiato nelle tante conferenze stampa post-defeat degli ultimi anni? Io no, l’ho visto solo seccato, ma soprattutto quasi impermeabile a tutto ciò che gli accadeva intorno. Per fino durante “the Decision” sembrava passasse di lì per caso…
Non ho mai notato – per fare un esempio “a caso” – una scena “alla Kobe Bryant”: di quelle in cui il 24 fa pause celentanesche tra una parola e l’altra rispondendo al reporter di turno che gli chiede “che cosa sia andato storto”, respirando forte e pesante con le narici che si dilatano – tipo toro – e i pugni sul tavolo che si chiudono a stringere l’aria. Insomma, il body language a volte dice più delle parole.
Non con LeBron. Lui ha sempre una faccia, e quella porta in giro. E tanti saluti.
Tutto bene, quindi? Non proprio…
Già perché – come dice lo zio Ben – “da un grande potere, derivano grandi responsabilità” e allora, se esci dalla fabbrica con tutta quella “roba” lì di serie, non puoi sperare che il resto del mondo non riponga delle aspettative su di te. No, semplicemente non puoi.
Da quando ha esordito tra i pro, a parte la sbornia iniziale, il nostro (o meglio il “vostro”) ha sempre comandato (anche) la classifica dei giocatori più antipatici (per non dire odiati), ovvio che “The Decision” sia stata per questo la ciliegina sulla torta…
In un film in uscita in questi giorni negli Stati Uniti, uno scambio di battute mette abbastanza bene a fuoco il problema. Uno studente – un bambino delle elementari, troppo giovane per MJ - dice al proprio insegnante di educazione fisica “non vorrai mica paragonare Jordan a LBJ, vero?” e l’insegnante “chiamami quando James avrà vinto sei titoli”, e il ragazzino “è tutta lì la motivazione?”, che viene ghiacciata da “è l’unica motivazione di cui ho bisogno”.
Allora – secondo me – il problema non è “LeBron è costretto a vincere”, ma piuttosto “LeBron deve smettere di far finta di vivere secondo le aspettative che gli altri (famiglia, entourage, multinazionali) gli hanno appiccicato addosso”.
E’ chiaro che non stiamo parlando di Jordan o di Bryant. E non per talento, ma per competitività. “Quelli” sono due che non sarebbero mai andati a Miami, a casa di un'altra star. Discorso chiuso.
James sì e facendolo ha fatto coming out. Ha detto che lui era “quel tipo lì” e che quello che ha tatuato sulle spalle “The Chosen One” è solo un avatar, più grosso, più cattivo e più determinato, creato da qualche parte nelle vicinanze di Beaverton, nell’Oregon (citofonare “Nike”).
Miami vincerà un titolo nel prossimo futuro? Probabile. Sarà il titolo di James? Non credo.
Ma se “A Man’s Got to Know His Limitations” – come diceva la mia guida spirituale Clint in “Dirty Harry” - allora urge rimettere nella giusta prospettiva la funzione e il ruolo di James, per evitare che sprechi tutta la carriera fingendo di essere quello che non è e che neanche vorrebbe essere.
La nuova mission per l’ex figlio di Akron, allora, è quella di sentirsi libero di infilarsi il costume di Robin, senza più remore e senza sensi di colpa, anche perché se è vero che “questa città ha bisogno del suo eroe”, Miami – e le ultime finali lo hanno confermato – il suo “cavaliere oscuro” ce l’ha già…
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